giovedì 25 aprile 2024

25 aprile: disarmo, la strada della Liberazione oggi

       La foto vincitrice del World Press Photo Contest del 2024, scattata nella striscia di Gaza dal fotografo dell’agenzia Reuters Mohammed Salem,mostra una donna palestinese che abbraccia una bambina morta – sua nipote, uccisa insieme alla mamma e alla sorella dai bombardamenti israeliani – avvolta in un sudario. Si tratta di una foto che si inserisce nella storia delle immagini di guerra, sulle quali è necessario farsi ancora le domande fondamentali che si è posta Susan Sontag davanti al dolore degli altri: “Si sarebbe potuto evitare? Abbiamo finora accettato uno stato delle cose che andrebbe invece messo in discussione? Sono queste le domande la porsi, nella piena consapevolezza che lo sdegno morale, al pari della compassione non è sufficiente a dettare una linea di condotta” (Davanti al dolore degli altri, 2021).
      Lo stato delle cose, in questo varco stretto della storia, vede il progressivo precipitare dell’umanità in una guerra mondiale, rispetto alla quale il discorso pubblico ha bandito, a tutte le latitudini, le pratiche e i linguaggi di pace, nel delirio delle ritorsioni reciproche, dell’escalation degli armamenti perfino nucleari, dell’impossibile annientamento del “nemico”. Delirio bellicista dentro al quale è annullata ogni iniziativa politica europea e italiana.
     Eppure proprio nella Costituzione italiana nata dalla Resistenza antifascista ci sono precise, quanto ignorate, indicazioni per andare oltre il solo “sdegno morale” per le morti in guerra, nella loro sostanziale accettazione, per adottare linee di condotta fondate sul solenne ripudio della guerra, proprio come “mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Erano passati poco più di tre mesi dal 25 aprile al 6 agosto del 1945, data nella quale la vittoria contro il nazifascismo si trasformò in una nuova sconfitta, quella dell’umanità nei confronti dell’arma atomica, “distruttrice di mondi”, capace di realizzare la “soluzione finale” dell’umanità.
     L’Assemblea costituente fu eletta ad appena dieci mesi di distanza da Hiroshima e Nagasaki e, con grande lungimiranza, ancorò l’articolo 11 – il più antifascista dei Principi fondamentali – all’etica della responsabilità, indicando la ricerca di mezzi e strumenti alternativi all’ormai inutilizzabile ferrovecchio della guerra per gestire e risolvere i conflitti internazionali. Con la consapevolezza che la guerra e la sua preparazione hanno un impatto negativo anche sulla vita civile e democratica.
     Ne avrebbe scritto a lungo anche Aldo Capitini – passato per le galere fasciste dopo essere stato cacciato dalla Normale di Pisa, in quanto obiettore alla tessera fascista, dall’oggi osannato direttore Giovanni Gentile – insoddisfatto anche di una democrazia che, nonostante la Costituzione, non riusciva a liberarsi dalla guerra: “Si sa che cosa significa, oggi specialmente, la guerra e la sua preparazione: la sottrazione di enormi mezzi allo sviluppo civile, la strage degli innocenti e di estranei, l’involuzione dell’educazione democratica e aperta, la riduzione della libertà e il soffocamento di ogni proposta di miglioramento della società e delle abitudini civili, la sostituzione totale dell’efficienza distruttiva al controllo dal basso”.
    Per queste ragioni, una democrazia aperta, fondata sul “potere di tutti” – secondo il filosofo della nonviolenza – si manifesta “nella capacità di impedire dal basso le oppressioni e gli sfruttamenti; ma questa capacità delle moltitudini ha il suo collaudo nel rifiuto della guerra, intimando un altro corso alla storia del mondo”.
     Tuttavia, perché il rifiuto della guerra diventi effettivo e non rimanga mera aspirazione utopica, è necessario che la resistenza alla guerra si dia un’organizzazione. Quell’organizzazione che è invece mancata nella fase di avvento del fascismo: i Gobetti, i Matteotti, i Gramsci vedevano chiaro e denunciavano il pericolo, scrive Capitini, ma non poterono organizzare un’ampia “non collaborazione dal basso” per fermarne l’ascesa, perché “non avevano intorno quella preparazione e quella maturità che li assecondasse” (Il potere di tutti, 1969).
    E oggi? Oggi che i poteri costituiti, nazionali e internazionali, alimentano ancora la guerra fino ad aver portato nel 2023 a 2.443 miliardi di dollari la spesa militare mondiale con un aumento record di 200 miliardi rispetto all’anno precedente (Rapporto Sipri 2024, appena pubblicato) – anziché costruirne gli strumenti alternativi – saremmo capaci di contrastarla? Se, di questo passo, si arrivasse a una mobilitazione nazionale per parteciparvi direttamente con uomini e donne sul terreno, i cittadini italiani – pur in grande maggioranza contrari – sarebbero pronti a resistere?
     Un mezzo costituzionale, consapevole e responsabile, in questo senso è fornito dalla campagna di “Obiezione alla guerra” promossa dal Movimento Nonviolento, nella quale ciascuno, aderendovi, dichiara la propria obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione, esplicitando l’assoluta indisponibilità rispetto a qualunque “chiamata alle armi”. Non si tratta di sottrarsi al dovere di difendere la comunità (articolo 52 della Costituzione) ma – come l’esperienza storica dimostra possibile ed efficace – di essere disponibile a farlo senza le armi, nel rispetto del ripudio della guerra, attraverso i metodi della nonviolenza organizzata.
   Oggi dunque, più che mai, la Liberazione si chiama disarmo e la resistenza si chiama nonviolenza, per cui non è sufficiente farne le sole celebrazioni il 25 aprile ma è necessario organizzarsi ogni giorno dell’anno. A partire dall’esercizio della personale obiezione alla guerra.

Pasquale Pugliese, Movimento nonviolento, da il Fatto Quotidiano

martedì 23 aprile 2024

Preferisci Nietzsche o un hamburger?

Edvard Munch: F.Nietzsche, 1906 (galleria Thiel, Stoccolma)
     Il saggio di Tobia Savoca Narrazioni diversive è un testo assai intrigante e interessante. Lo recensirò presto.
       Ecco quanto scritto in quarta di copertina: “Questo saggio fornisce a tutti uno strumento per decodificare le teorie del complotto come rivendicazioni politiche diversive, funzionali al mantenimento del potere, poiché nascondono conflitti sociali reali e paure antropologiche. Capiamo così che questo fenomeno partecipa da un lato al movimento di egemonizzazione ideologica neoliberale che discredita come ‘complottista’ qualsiasi critica; dall’altro al risorgere del movimento reazionario delle destre mondiali, che offre al risentimento e all’impotenza politica dei cittadini narrazioni diversive che permettano di superare la crisi del capitalismo senza metterlo in discussione”.

Ne propongo intanto qualche assaggio.

"La scuola neoliberista ha creato le macerie intellettuali sulle quali le teorie del complotto proliferano. Il neoliberismo mira alla disintegrazione di significati condivisi e di utopie politiche. Se le teorie del complotto sono scorciatoie del pensiero, semplificazioni per comprendere gli eventi, l’educazione familiare e scolastica dovrebbe avere l’arduo compito di educare alla complessità e di fornire strumenti adatti a comprendere il mondo. La scuola di matrice liberale, fatta di tagli e spending review, sembra essere andata in direzione opposta. In primis i sistemi educativi negli ultimi decenni hanno sacrificato la costruzione del cittadino e della persona sull’altare del primato della performance e della specializzazione dei saperi. La scuola-azienda ora serve a formare lavoratori, non persone e cittadini.
      Questo da un lato ha creato il mito della «didattica per competenze», del «merito», del primato tecnico-scientifico a discapito della dimensione critica, umana ed emotiva. «Fare meglio», non «perché fare?». Dall’altro ha contribuito a enfatizzare il ruolo sociale e mediatico degli esperti che sono deputati a prendere delle decisioni. Si legittima sin dalla scuola così una tecnocrazia che non ama al condivisione tanto nel processo decisionale quanto in quello della conoscenza. Sapere è potere! La democratizzazione del sapere, anziché dalla scuola, passa attraverso canali sotterranei o virtuali che diventano quindi mezzi di informazione alternativi, spesso senza il controllo degli esperti. (…)
     La progressiva trasformazione, già inscritta nelle politiche educative, da cittadino consumatore ha lasciato l’essere umano solo di fronte a un bombardamento crescente di informazioni che affronta con le armi spuntate della completa libertà di scelta di un qualsiasi sapere «usa e getta». Men che meno è stata fornita un’educazione ai media che permettesse ai cittadini di acquisire responsabilità sul contenuto mediatico che producono o diffondono. 
    Contemporaneamente, portando l’educazione sempre più sul campo dell’intrattenimento, si è alimentato un altro cortocircuito. Quando si chiede a uno studente di leggere, spesso la risposta è che l’atto di leggere (non tanto il contenuto) è noioso.
    Ce lo racconta Mark Fischer (2009, p.62), spiegandoci che: “Essere ‘annoiati’ significa semplicemente venire esiliati dallo stimolo e dall’eccitamento comunicativo degli SMS, di YouTube, del fast food; significa essere costretti a rinunciare (…) al flusso costante di una zuccherosa gratificazione on demand. Ci sono studenti che vorrebbero Nietzsche allo stesso modo in cui vorrebbero un hamburger: quello che non colgono – ed è un fraintendimento alimentato dalle logiche del sistema consumistico – è che l’indigeribilità, la difficoltà è Nietzsche."
      Inoltre la cultura consumistica e ipermediata dell’intrattenimento ha generato una frammentazione non solo della comunità interpretativa in atomi-individui, ma delle stesse soggettività già in età adolescenziale (…).
     Immergendo cuccioli di esseri umani in un flusso di «puri significanti materiali», «di presenti puri e scollegati nel tempo», la ricostruzione di un senso (prima ancora che di uno spirito critico), della comprensione del testo, della memoria, della storia, della riflessione diventa un progetto più che ambizioso. Mentre l’informazione viaggia su canali sempre più immediati, considerando i livelli di analfabetismo funzionale e non, la sfida dell’educazione alla complessità diventa resistenza alla schizofrenia".

Tobia Savoca: Narrazioni diversive (Diogene Multimedia Bologna 2023, pagg.44/46)

domenica 21 aprile 2024

Strategie dell'azione nonviolenta: il dialogo

      Il dialogo è l’arma più leggera e facile della nonviolenza. Il nonviolento non abbandona mai il dialogo. Ma se il dialogo viene rifiutato lui arriva addirittura a provocarlo. (…)
      Ho partecipato al primo convegno tra cristiani e marxisti dell’Est e dell’Ovest che si è tenuto a Salisburgo. (…)
C’erano quasi 400 tra marxisti e cristiani dell’Est e dell’Ovest. C’erano uomini importanti. Dopo due giorni ero esausto. Dissi a mia moglie: «Non ne posso più» (…) Allora chiesi la parola. Dissi pressappoco così: «Abbiamo voluto fare un dialogo fra cristiani e marxisti. Va bene. Questo è il primo passo sulla strada del dialogo. Ma cosa abbiamo fatto per due giorni? Due monologhi.  Cioè i cristiani sono venuti alla tribuna e hanno detto tutti i crimini, tutti i gulag, tutti i massacri che hanno fatto i marxisti. Ed in seguito hanno esposto la loro verità di cristiani. I marxisti a loro volta hanno preso la parola ed hanno parlato delle crociate, delle guerre sante, di tutto quanto di male hanno fatto i cristiani, e poi hanno parlato della loro verità di marxisti. Allora potremmo continuare a chiacchierare per un sacco di tempo qui, ma senza riuscire a concretizzare niente. Il dialogo è esattamente il contrario. Prima di tutto è scoprire la verità dell’altro».
     Ogni uomo ha una verità, dal momento che è stato creato da Dio, e Dio non crea gli uomini a macchina. Dio crea personalmente nel suo atto d’amore ogni uomo e gli dona una vocazione. Lo crea con una finalità e questa è la sua verità. Quindi ogni uomo, sia credente che ateo, fa parte della Verità che è Dio. Quando siamo intolleranti siamo violenti. Anche la Chiesa cattolica, quando pensa di avere il monopolio della Verità, diventa violenta. Quindi per il nonviolento la prima cosa da fare quando vuole dialogare col proprio nemico o avversario è credere di poter scoprire questa verità.
         E quando l’ha scoperta, gli può e gli deve dire: «Io ho scoperto questo e questo in te, ed è magnifico». In questo modo, nell’accoglienza dell’altrui verità, si prepara l’accoglienza della propria verità da parte dell’altro. Qualche volta egli ha tradito la sua verità così tanto che è difficile scoprirla. Ma quando si scopre la verità e la si dice, egli scopre, o riscopre, la propria vocazione, cioè perché è stato creato.
         Secondariamente, occorre vedere come noi abbiamo disconosciuto la verità dell’altro, o addirittura le siamo stati infedeli, l’abbiamo tradita. E se abbiamo fatto questo dobbiamo dirglielo. Vedete bene che se si affronta l’avversario in questo modo si genera un rapporto diverso che se lo si affronta in modo violento.

Jean Goss, La nonviolenza trasforma la vita, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2018 (pag.71,73,74)

venerdì 19 aprile 2024

Il complottismo: una nuova forma di pensiero religioso?

Mavka e la foresta incantata
     Il saggio di Tobia Savoca Narrazioni diversive è un testo assai intrigante e interessante. Lo recensirò a breve. Ne propongo intanto qualche assaggio.

"Popper (1945) sostiene che il complottismo sia una forma moderna di superstizione, un mito che permette di giustificare la realtà. (…) Il sentimento complottista è qualcosa di assimilabile a uno ‘slancio religioso’ : quell’impressione nelle persone che «non può essere tutto lì quello che c’è». Risulta rassicurante sapere che di fronte e tristi e sconvolgenti eventi «c’è dell’altro» che possa giustificare l’assurdità dell’accaduto. E di eventi tristi e sconvolgenti, in una parola eventi di crisi, siamo sempre più abituati. «Nulla accade per caso».
   Può sembrare paradossale ma proprio oggi che le Grandi Narrazioni (la religione e le ideologie) sembrano scomparse, tanto che si parla di contesto post-ideologico, il bisogno di schemi interpretativi, di senso e di spiritualità si fanno sempre più forti. Non conoscete nessuno che sia un po’ scaramantico, che faccia discorsi da hippie sull’energia delle persone o dei luoghi, su vie personali all’illuminazione, o che creda all’astrologia? Tranquilli, non si tratta necessariamente di complottisti.
Grazie alla scienza e alla tecnica, negli ultimi due secoli abbiamo avuto la presunzione di spiegare tutto e gestire tutto, cancellando tutto quello che di spirituale, romantico è presente in noi e nella realtà. (…) 
  
    C’è chi sostiene che la razionalità abbia portato a un «disincanto del mondo» (Weber, 1918) e all’ «esaurimento del regno dell’invisibile» (Gauchet,1985) sotto la spinta della grande capacità, da parte della scienza e della tecnologia, di penetrare l’imperscrutabile spazio, tanto microscopico, quanto universale. 
     C’è chi invece, sostenendo che assistiamo da più di vent’anni a un grande ritorno del fenomeno religioso e di una sua sublimazione, ha parlato di «reincanto del mondo». Non è vero che non ci sia più nulla da spiegare, da scoprire e nulla di cui «incantarsi». La scienza e la tecnica non sono sufficienti a soddisfare in tutto la brama di conoscenza e di piena realizzazione dello stare al mondo, dell’esserci. Il complottismo, come pensiero religioso, fa parte di questo movimento di «reincanto del mondo» (Taguieff,2005)
   Mai come oggi vanno di moda medicine alternative, spiritualismo orientale, naturismo e misticismo new age. Non è un caso che alcuni acuti intellettuali abbiano rintracciato una forte accelerazione del complottismo negli ambienti legati alla cultura new age.  Wu Ming, analizzando il fenomeno di QAnon, ovvero uno dei movimenti che ha portato all’assalto del Campidoglio il 6 gennaio 2021, ha sottolineato una forte convergenza tra il pensiero cospirativo di destra e lo spiritualismo New Age, della wellness, delle medicine e spiritualità alternative.
   Questa commistione tra cospirazionismo e spiritualità, oggi denominata ‘conspirituality’, era stata in qualche modo predetta da Umberto Eco. E se andiamo a guardare ancora più indietro nel tempo, queste contaminazioni hanno già importanti precedenti europei. Il misticismo nazista della Germania affondava le sue radici nel movimento Völkisch, il quale a sua volta mescolava teosofia e occultismo, promettendo una reintegrazione dell’uomo con la natura che la modernità aveva separato.
    Questa sensibilità politica univa spiritualità individuale e razionalità politica dando significato a un progetto che mirava a cambiare una società distrutta dagli effetti della rivoluzione industriale. In tempi più recenti invece possiamo notare questa convergenza tra cospirazionismo e fondamentalismo religioso sia tra i ranghi di un certo cristianesimo americano sin dai tempi della Guerra fredda, che tra i ranghi di un certo islamismo."

Tobia Savoca Narrazioni diversive Diogene Multimedia Bologna 2023, pagg.40-42

martedì 16 aprile 2024

Un mondo a parte...

        Avevo pensato di scriverla io. Francesca Sammarco mi ha preceduta. Ecco la sua bella recensione:

     RIETI – “La montagna lo fa”. La frase ricorre spesso nel film di Riccardo Milani “Un mondo a parte” e la coppia Antonio Albanese e Virginia Raffaele è credibile, come i ragazzi e le persone del posto (attori per l’occasione), cioè Pescasseroli, Barrea e il Parco nazionale d’Abruzzo. 
    Il film riesce a mettere il dito su una piaga sanguinante, le aree interne, il rapporto dell’uomo con la natura e lo fa con semplicità, senza frasi a effetto, ma con realismo e dietro alle piccole frasi, sguardi, battute, situazioni, c’è una denuncia precisa.     Un mondo a parte, sì, per chi è nato e cresciuto nelle grandi città, ma che dovrebbe conoscere, soprattutto se si trova nelle stanze dove si decide il destino della gente, senza avere consapevolezza dei luoghi, situazioni, le esigenze e le difficoltà, condizioni atmosferiche avverse, senza pensare che le aree interne riguardano anche le grandi città, l’intero Paese.
     “Contano i numeri”, ripete chi sta in alto. E le persone? I sogni dei ragazzi? L’ambiente?  “Se chiude una scuola, chiude tutto il paese” e le speranze sono fioche, legate a sognatori, pochi, che non sono creduti e vengono osteggiati anche dai genitori, ormai rassegnati. E la salvezza, visto che non facciamo figli, sono gli immigrati, piaccia o no. Il tema della rassegnazione viene affrontato più volte, i giovani che vanno controcorrente sono soffocati e dileggiati in ogni modo. Ma chi va avanti a testa bassa, facendo leva sulle proprie idee, aspirazioni e modo di amare, può ancora ribaltare le situazioni e i destini dei luoghi, perché “Non voglio fare la fine di Sperone”, dice Duilio, mentre ostinatamente cerca di recuperare un vecchio trattore. Sono loro, i sognatori, quelli che non si arrendono, la speranza di tutto il genere umano e Sperone esiste veramente, è un paese abbandonato e silenzioso, vicino ad Opi, dove è stato girato il film, ormai solo vecchie pietre e vaghe tracce di un cinema, una scuola, una trattoria, vita passata.
    Ce ne sono tanti nelle aree interne, come fantasmi. Il film lancia un grido di dolore, lo fa sommessamente, senza essere pesante, senza clamore, pur denunciando una situazione reale e preoccupante, perché racconta la realtà di piccoli borghi montani che hanno gli stessi problemi, sia al Nord che al Centro- Sud, per la chiusura dei plessi scolastici, che vengono accorpati con altre scuole distanti tra loro, in un territorio montano, se gli iscritti non rispondono ai numeri stabiliti. 
                                                                                                (continua qui: il Punto Quotidiano)

domenica 14 aprile 2024

"Restiamo umani": l'esortazione (inascoltata) di Vittorio Arrigoni

       Palermo – Se Vittorio Arrigoni fosse ancora vivo, avremmo forse un’informazione più precisa su quanto succede oggi nella martoriata striscia di Gaza. Volontario, giornalista e reporter, dal 2004 al 2011 fu anche autore del blog Guerrilla Radio, il più letto in Italia durante l’operazione militare israeliana ‘Piombo fuso’ del 2008/2009, quando Arrigoni rimase uno dei pochi, se non l’unico, dei cronisti/testimoni sul campo.
        Ma chi fu Vittorio Arrigoni?  (continua su il Punto Quotidiano)



Maria D'Asaro, 14.4.2024 il Punto Quotidiano

Ho scritto una lettera postuma a Vittorio: qui

sabato 13 aprile 2024

La guerra non è mai una soluzione


      Lo scorso 17 febbraio, all'età di 93 anni, ci ha lasciati Johan Galtung, fondatore e pioniere della ricerca scientifica per la pace. 
   Ho incontrato una sola volta di persona Galtung partecipando ad un seminario/laboratorio che svolgeva – lui che aveva avviato i Peace studies internazionali e fondato il PRIO-Peace Research Institute di Oslo, insegnato nelle maggiori università del pianeta e fatto il consulente per le Nazioni Unite – all’interno di una sala civica di un quartiere a Bologna, agli inizi degli anni 2000. 
    E per spiegare la “trascendenza” del conflitto – spiazzando tutti con la sua ironia – aveva posto la questione dell’arancia contesa da due bambini e delle possibili soluzioni, dimostrando che sono molto più di due, se solo si va oltre la superficie del conflitto e si indagano i bisogni profondi di ciascuno dei confliggenti. (...) qui vorrei riepilogare in estrema sintesi alcuni degli elementi essenziali del pluriverso culturale e metodologico che fonda la proposta della nonviolenza di questo poliedrico studioso.

Superare la logica binaria della guerra

Approfondire l’approccio di Galtung ai conflitti significa dotarsi di alcuni di quei saperi che mancano maggiormente e drammaticamente nel nostro tempo, nel quale, da ogni parte, non si cerca altra soluzione se non quella binaria della guerra, fondata sulla dicotomia vittoria-sconfitta. Con la conseguente escalation di violenza, vittime ed armamenti, in un ciclo dal quale non si vede via d’uscita – per di più all’interno di un orizzonte nucleare esplicitamente minacciato – che contamina sempre più pericolosamente la cultura profonda.

“Una società strutturata attorno alla violenza diventa caricatura di se stessa – scrive Galtung –, sia che la violenza venga dalla cima di una piramide di potere, sia che provenga da piccole sacche di guerriglia: il terrorismo dall’alto è uguale al terrorismo dal basso. La cultura diventa un magazzino di ferite profonde, affondate nella memoria collettiva e nell’anima della gente, ferite che vengono usate per travisare ogni cosa e persona, piuttosto che per cercare nuovi approcci”.

Una fotografia perfetta della condizione attuale, dove il più grave dei problemi – la guerra – è spacciato per la loro soluzione.

Diagnosi, prognosi e terapia dei conflitti:

Per Galtung la pace non è solo l’assenza di guerra – che è una delle forme nelle quali si esprime la violenza – ma è l’assenza, e la progressiva riduzione, di ogni tipo di violenza, attraverso la trasformazione nonviolenta di tutti i conflitti. Inoltre, “essere contro la guerra è una posizione moralmente lodevole, ma non è sufficiente a risolvere i problemi delle alternative alla guerra e delle condizioni per la sua abolizione”.

Pasquale Pugliese (continua qui)

giovedì 11 aprile 2024

Quando uno è bravo, è bravo... grazie, Sandro!

Palermo, Porta Mazara: scala verso il cielo...





Foto (e didascalie) pubblicate sono dell’amico Sandro Riotta: giudicate voi se è bravo…


(qui e qui altri suoi magnifici scatti)












Palermo, spiaggia di Romagnolo: fiori di convolvolo


PA, spiaggia di Romagnolo: fiore di malva, che si 'insinua' tra i convolvoli


Monreale, Palazzo comunale, scorcio




Palermo, Cubula o Piccola cuba, prima e dopo il restauro.
Gli scavi archeologici, compiuti nel 2020 con la direzione scientifica dell’archeologo spagnolo Julio Navarro Palazón e della soprintendente Lina Bellanca e con la collaborazione del geologo Pietro Todaro, hanno messo in evidenza all’interno della Cubula l’“impronta” rimasta della piccola vasca circolare il cui zampillo impreziosiva la vista di questo edificio, riedificato dai Normanni su un’analoga struttura araba preesistente.
L’acqua giungeva a pressione in questa vasca grazie a una conduttura interrata, proveniente dalla rete di canali dell’antico Genoardo, sfruttando sapientemente la naturale pendenza del terreno. 


Palermo, Piccola Cuba:  Genoardo Jannat al-ard Paradiso della terra


Porto di Palermo, 24 febbraio 2024

Cupola 'nascente' dalla chiesa di san Cataldo - Palermo



martedì 9 aprile 2024

Fraternità chiusa e aperta, secondo Edgar Morin

     "Attenzione, però: c’è la fraternità chiusa e la fraternità aperta. La fraternità chiusa si richiude sul “noi” ed esclude chiunque sia straniero a questo “noi”. Anche il nemico suscita la fraternità patriottica, ma la suscita evidentemente contro di lui, che spesso viene persino escluso dall’umanità.
    La patria suscita una fraternità ambivalente: questa parola comincia con un maschile paterno e termina in un femminile materno; porta in sé l’autorità legittima del padre e l’amore avvolgente della madre. Le dobbiamo dunque obbedienza e amore. Ma questa fraternità si chiude ermeticamente e disumanamente nel nazionalismo che considera la propria nazione superiore alle altre, legittimandosi così a opprimerne un’altra.
    All’opposto del nazionalismo, invece, il patriottismo permette una fraternità aperta, particolarmente quando riconosce piena umanità allo straniero, al rifugiato, al migrante. Può portare in sé il sentimento d’inclusione della patria nella comunità umana, che è oggi comunità di destino di tutti gli esseri umani del pianeta (…).
    Non dimentichiamo anche che la fraternità infrange la legge di qualunque regime che comporti discriminazione e oppressione. Così, sotto Vichy e sotto l’occupazione tedesca, umili contadini, certi custodi in città e alcuni aristocratici ospitarono ebrei, stranieri illegali o combattenti della Resistenza, a rischio della propria vita. (…)
    Ma oggi, purtroppo, benché la frase Libertà, Uguaglianza, Fraternità abbia rimpiazzato il Lavoro, Famiglia, Patria, motto di Vichy, le azioni di fraternità di umili contadini alpini che aiutano e ospitano rifugiati, vittime di disgrazie e miserie, nel tentativo di attraversare le Alpi, sono perseguitate dalla giustizia francese, e la fraternità diviene di nuovo delitto e crimine."

Edgar Morin  La fraternità, perché?
 Fondaz. Apost. Actuositatem Roma 2021, pp.15,16,17

domenica 7 aprile 2024

Ad Agrigento fioccano le polemiche sul Telamone innalzato

       Palermo – Il Telamone, colosso in pietra di circa otto metri, è tornato in posizione eretta a fine febbraio scorso nel Parco archeologico di Agrigento: sarà uno dei simboli della città, capitale italiana della cultura per il 2025. L’opera di ricostruzione dei pezzi, iniziata già nel 2006, è stata infatti completata e i resti del Telamone sono stati assemblati su uno scheletro di acciaio, posto poi in verticale.
      Il Telamone era una delle statue che raffiguravano Atlante: il titano che, per aver osato sfidare con i suoi fratelli il grande Zeus, venne da questi condannato a reggere per sempre la volta celeste. Secondo le ricostruzioni archeologiche, la statua reggeva la trabeazione del tempio di Zeus Olimpio, eretto dopo la vittoria del 480-479 a.C. sui Cartaginesi, quando Agrigento, allora chiamata Akragas, era governata dal tiranno Terone. Il tempio, il maggiore all’interno dell’antica Akragas, era anche uno dei più grandi dell’antichità. Descritto come magnifico da Diodoro Siculo e celebrato da Polibio, si calcola fosse grande come un campo di calcio e alto come un palazzo di 13 metri. 
    Purtroppo nel 1401 l’intera costruzione crollò completamente per un terremoto. E, come ricorda con rammarico Andrea Camilleri nel libro La strage dimenticata, (continua su il Punto Quotidiano)

Maria D'Asaro, 7.4.24, il Punto Quotidiano